L’Agenzia delle Entrate può rettificare (in aumento) il reddito dichiarato dal contribuente, anche attraverso accertamento con metodo analitico-induttivo.
E tanto, anche se il contribuente ha formalmente tenuto la propria contabilità, ed anche se la sua dichiarazione è risultata congrua con gli studi di settore.
Invero, per procedersi con tale metodo è sufficiente che esistano incongruenze dei ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati rispetto a quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività; ossia che tale raffronto conduca a risultati confliggenti con i criteri di ragionevolezza, “anche sotto il profilo dell’anti-economicità del comportamento del contribuente”.
In tali casi, dunque, l’Agenzia può legittimamente valorizzare elementi di consumo (quali guanti monouso in odontoiatria; tovaglioli nelle imprese di ristorazione) quale prova del (maggior) numero di prestazioni rese, e, quindi, dell’entità dei relativi (maggiori) ricavi, ponendo a carico del contribuente l’onere della prova contraria.
Lo ha di recente confermato la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con sentenza 30782/2018.